Shape of Water: chi parla e chi ascolta
Shape of Water, 2018, Guillermo del Toro. Cerco di mettere da parte il mio amore per questo regista ma non prometto nulla.
Shape of Water, 2018, Guillermo del Toro. Cerco di mettere da parte il mio amore per questo regista ma non prometto nulla.
Siamo negli anni ’60. Elisa Esposito è una giovane donna muta e lavora come addetta alle pulizie in un laboratorio del governo dove si fanno esperimenti per vincere la guerra fredda contro la Russia e per portare avanti la corsa allo spazio. Tra questi esperimenti c’è la creatura, un essere anfibio antropomorfo la cui estetica ricorda il Mostro della Laguna Nera (dichiaratamente una delle ispirazioni di del Toro). Elisa e la Creatura entrano in contatto e riescono a comunicare, riconoscendosi nella loro comune incapacità ad emettere suoni. Quando diventa chiaro che il destino della creatura è di essere vivisezionato e studiato, Elisa decide di salvarlo. La ragazza coinvolge nel suo piano una collega di lavoro, uno scienziato della struttura ancora dotato di una propria etica e il suo vicino di casa e migliore amico. Il piano riesce ma l’incaricato alla sicurezza della base, che poi è anche l’uomo ad aver catturato per primo la creatura, si mette immediatamente al lavoro per scovarli.
Sul piano registico a Guillermo c’è davvero poco da dire. Il regista messicano ha ormai una decina di film all’attivo e ogni singola volta ha manifestato un talento visivo e una capacità tecnica impeccabile.
Nonostante il suo pessimo rapporto con Hollywood, e quindi nonostante non disponga quasi mai di budget molto alti, del Toro ha sempre portato sullo schermo film qualitativamente perfetti. Shape of Water non fa eccezione. La regia è asservita al racconto ma non senza concedersi carattere. Del Toro opta per uno stile posato, con pochi movimenti di macchina, quasi invisibili, che riescono ad accompagnare i personaggi durante le scene e, al contempo, mostrare ambienti e spazi.
Il risultato è molto immersivo, anche grazie al lavoro immenso di scenografia e messa in scena. Tutto, dall’appartamento di Elisa al laboratorio in cui si trova la creatura, è curato in ogni dettaglio. Sul design, la mano di del Toro si nota un po’ ovunque. L’estetica generale ammicca alla fantascienza classica, quella di Bradbury (per dirne uno tra molti), priva di informatizzazione o di incredibili sistemi di comunicazione e ricca, piuttosto, di progetti, vasche e grovigli di grossi cavi per terra.
Menzione speciale per la fotografia. Guillermo gioca con ombre e riflessi, alterna scene più calde (negli appartamenti di Elisa e di Giles, il suo vicino) ad altre più fredde (quasi tutto l’ambiente della base). Soprattutto però, il film riesce a rendere l’acqua un elemento rassicurante, una presenza a sé che unisce, avvolge e protegge. Impresa questa non banale visto che, normalmente, sopratutto al cinema, l’acqua costituisce un elemento di disturbo, un campanello di allarme o addirittura un pericolo.
Shape of Water riesce a fare quello per cui gli autori lavorano sodo per anni, e non sempre con successo: parlare di un tema complesso attraverso una storia semplice, stratificando i livelli di lettura e piegando a quel tema, senza forzare nulla, ogni aspetto della storia. Il film è una storia d’amore, è una commedia ed è anche, in piccola parte, un thriller. Eppure non parla d’amore, non nel modo in cui ci si aspetta da questo filone.
L’amore, in Shape of Water è immediatamente chiaro ed immediatamente salvato. I due protagonisti non hanno problemi a riconoscersi, a entrare in contatto. Non ci sono strani eventi che mettono in crisi la fiducia reciproca, come avviene spesso nel genere romantico.
Qui si parla piuttosto dell’incomprensione umana, dell’insensatezza dei conflitti che vengono fuori attorno alle diversità. Il tema del film è tutto lì, in realtà: c’è chi parla e c’è chi ascolta. Se non si ascolta non si comprende e se non si comprende si va in guerra, si discrimina e si provocano sofferenze. Sembra facile, no? No, non molto. In Shape of Water i due protagonisti sono letteralmente incapaci di parlare. Non hanno la possibilità di imporre urlando la loro volontà o i loro sentimenti. Basta voltarsi per ammutolire completamente Elisa. Inoltre non hanno neanche la forza di far parlare il loro ruolo, la loro posizione sociale. Entrambi sono muti da ogni punto di vista. Lui è un mostro, un essere diverso che quindi non è neanche umano. Lei è una donna delle pulizie, un’inserviente, una che «pulisce la merda e il piscio» come le viene ricordato.
Elisa e la creatura ascoltano e questo, nel film, divide i degni dagli indegni. Il capo della sicurezza non ascolta nessuno. Lui parla, lui sa. Tutti devono ascoltarlo perché lui è un uomo forte e di valore, uno che ha carattere e non si lava mai le mani più di una volta, quando urina. Quando fa sesso con sua moglie le chiede di stare in silenzio, quando i figli la sera giocano tra loro esce e si chiude in macchina. Gli ufficiali russi che tramano contro la struttura di ricerca non sono migliori: a loro non interessa ascoltare, imparare. Gli interessa essere primi, vogliono solo che l’America non impari più di loro e prima di loro. Ed esattamente come nessuno ascolta Elisa, nessuno ascolta lo scienziato della base che ritiene che la creatura sia un bene prezioso, oltre che un essere in grado di capire il linguaggio e le emozioni.
Guillermo riesce a ripetere questo concetto in ogni momento, coniugandolo con qualsiasi storia mostrata nel film. La collega di Elisa ha una relazione difficile con il marito perché lui non ascolta quello che lei fa per lui. Lei cucina, lei lo coccola, lei vorrebbe apprezzamento. Giles, il vicino, è un artista omosessuale che ha perso il lavoro probabilmente anche per il suo orientamento. Anche lui non ascolta, immerso com’è nel suo desiderio di riaffermarsi come artista. C’è una scena, nel film, in cui Elisa si arrabbia e obbliga Giles a ripetere quello che lei dice con il linguaggio dei gesti. Non è casuale ed è una trovata efficacissima: Elisa lo forza ad ascoltare, ascoltare per davvero, in senso stretto. E, pensa un po’, una volta che uno ascolta per davvero allora è costretto a fare i passi successivi, a comprendere ed empatizzare.
Questo concetto, per Guillermo, è alla base della piccola vicenda di Elisa e della Creatura così come alla grande vicenda della guerra fredda e del razzismo. Chi mette al primo posto l’affermazione di sé invece che l’ascolto degli altri cade in errore e produce danni. Significativa la scena in cui lo scienziato rivela un’informazione importante per soddisfare quello che si potrebbe definire un senso di rivalsa, una volontà di sferrare un colpo (lui che ne ha sempre e solo prese). Anche quel gesto, per quanto comprensibile, produce conseguenze.
E si potrebbe andare avanti a lungo ma mi limito a elencare solo un’altra scena, quella in cui la creatura scappa da casa di Elisa e viene trovata immobile, incantata, di fronte allo schermo di un cinema. Credo che per Guillermo del Toro (e per molti altri amanti della settima arte) quella sia una scena significativa. Al cinema ti siedi, al buio, in silenzio, e ascolti. Ascolti per un paio d’ore delle voci e guardi delle immagini che ti raccontano una storia. Il cinema, se uno ha voglia di fare lo sforzo di leggerlo oltre che guardarlo, è la quintessenza dell’atto di ascoltare come lo si intende in Shape of Water. E, appunto, se ascolti poi i passi successivi li devi fare e allora cambi tu, cambiano gli altri, potenzialmente cambia il mondo.
Shape of Water segue la struttura delle fiabe. Il film viene introdotto e chiuso da una voce narrante, ha dei buoni e dei cattivi (per quanto dotati di sfumature) e ha un suo scheletro molto riconoscibile in cui si muovono personaggi che rivestono ruoli specifici.
Senza scendere nei dettagli, è curioso notare come Guillermo abbia creato un’alchimia deliziosa semplicemente slittando i ruoli. Al posto dell’eroe, del cavaliere, ci mette la fanciulla. Al posto della fanciulla ci va il mostro. Al posto del mostro ci va il cavaliere, l’uomo d’armi tutto onore e rigore. Con questo passaggio apparentemente semplice il regista sposta in realtà tutto quanto, ribaltando il sistema di simboli: la spada del cavaliere diventa il silenzio della fanciulla, il terrore del mostro diventa puro pregiudizio. Fanciulla poi è un termine che qui trae in inganno: Elisa è rappresentata con un’attenzione e una completezza che raramente, specie nella fiaba, è concessa ai personaggi femminili. Elisa è forte, curiosa, non ha paura di esprimere le proprie passioni e la propria sessualità. Non ha neanche paura di mettersi di fronte al potere (sociale o fisico che sia) e sfidarlo. Ha i suoi fantasmi, come tutti, le sue paure e i suoi traumi ma niente di tutto ciò si risolve in un archetipo di fragilità e compostezza. Anzi.
Vedetevelo. Magari un paio di volte. Se il film non dovesse far breccia in voi o se alcune cose non dovessero piacervi ricordate che tutte le storie di genere vivono di compromessi e che nessuno (o comunque poca gente) riesce a sintonizzarsi con tutti. Però, ecco, cercate di leggerlo. Ne vale la pena. Questa è probabilmente la pellicola più complessa di del Toro ed è gremita delle questioni sociali e politiche che a lui sono più care. Lo sguardo è lucido, di cuore, critico anche se conserva un suo ottimismo di fondo.
Quando Elisa batte il pugno sul muro e, in un silenzio completo, dice: «Se non facciamo niente, non siamo niente», parla improvvisamente per tutti e a un volume molto, molto alto.
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