Mine — Il passo avanti del cinema italiano?
Mine, film del 2016 scritto e diretto da Fabio Guaglione & Fabio Resinaro, due registi di inizi anni ’80 (quindi giovanissimi, considerato il mestiere), che si sono fatti strada grazie al talento fino a farsi produrre questa pellicola. La produzione coinvolge America, Spagna e Italia, si tratta di un film a basso budget ma qualitativamente notevole sotto molti aspetti. In giro continuo a leggere recensioni che gridano al miracolo. Ora… io ho il massimo rispetto per questi due registi ma credo che vadano fatti due discorsi diversi in base ai contesti.
Se prendiamo come riferimento il cinema italiano allora sì: con Mine siamo di fronte quasi a un miracolo. Questi due sanno piazzare la macchina da presa, sanno realizzare immagini la cui qualità, per fotografia, dinamicità, messa in scena e regia, non ha davvero nulla da invidiare al mestiere di molte produzioni hollywoodiane.
Fabio & Fabio salutano con la mano, da una discreta distanza, tantissimi registi anche molto blasonati che qui da noi si accontentano, non osano, non sperimentano e spesso nemmeno le progettano, le proprie inquadrature. Quindi sì, siamo di fronte a un netto passo avanti nella dimostrazione che un talento italiano esiste e che due ragazzi, anche qui da noi, possono crescere a pane e cinema e, se messi in condizione di usare i mezzi appropriati, realizzare qualsiasi cosa.
Detto questo, e senza mai dimenticarlo, il passo avanti dobbiamo farlo noi come spettatori e procedere oltre. Mine è un film, al di là di chi l’abbia prodotto e come, deve anche essere giudicato per quel che è, pregi e difetti.
Trama
Un soldato rimane da solo in mezzo al deserto con un piede su una mina e deve trovare un modo per risolvere la situazione. Ok, con calma. Il film si divide in due parti: pre e post mina. Sul pre-mina farò alcuni spoiler ma, sul serio, posso assicurare che sapere o non sapere è del tutto ininfluente rispetto alla visione del film. Sul post-mina rientrerò in zona sicura.
Pre-mine
Ci sono due marines in mezzo al deserto. Uno è un cecchino che ci viene presentato come bravissimo, l’altro è il suo osservatore, lì per aiutarlo e facilitare l’operazione. Subito si delineano i due caratteri: il nostro protagonista, Mike, è silenzioso e concentrato anche se i suoi pensiero tornano costantemente alla donna che ha lasciato a casa. Il suo compare, Tommy, è il classico simpaticone che non sta mai zitto. Mai. Neanche durante una missione. Però va bene, ci sto, può essere. Alla fine sono due ragazzi da soli nel deserto che devono cecchinare un terrorista. Il cattivo arriva in scena e sembra proprio lui anche se alcuni piccoli elementi lasciano una minuscola percentuale di dubbio. Lo vedono incontrarsi ad un vecchio pozzo abbandonato con un altro gruppo di persone che sostengono una portantina da cui scende una donna addobbata da sposa. Si tratta di un matrimonio. Mike entra in paranoia. Intuiamo che la situazione per lui è emotivamente troppo forte e non vuole sparare al terrorista. Dalla radio i superiori gli fanno cortesemente notare che è un marines, che è addestrato per quello, che quel tipo è un terrorista e anche se ora presenzia a un matrimonio domani probabilmente farà esplodere dei palazzi. Mike però non cede, vede la scena romantica dei due sposi che stanno vicini e trova delle scuse per rimandare il colpo. In realtà Mike è talmente premuroso che non solo non spara ma butta in alto il fucile tanto che il mirino finisce per riflettere il sole ed essere avvistato dalle guardie del terrorista. Ora io non sono un cecchino quindi magari parlo a sproposito ma credo (spero) che di non farlo sia scritto a pagina 3 del manuale del tiratore scelto. Però va bene, ci sto, può essere.
Ne scaturisce una sparatoria anche se, mi faceva notare l’amica con cui ero in sala, se questo è un cecchino è inutile che gli spari con armi normali visto che, in teoria, se non hai a tua volta un fucile come il suo non ci arrivi proprio.
Ok… va bene, ci sto, può essere.
I due marines fuggono. A piedi. Non so come siano arrivati in mezzo al deserto, immagino paracadutati perché non hanno niente per muoversi, tranne gli stivali. Ruzzolano giù dal picco su cui erano appostati, sviano gli inseguitori e riescono a far perdere le proprie tracce. Ok. Adesso arriva il momento in cui chiamano i rinforzi. Dalla centrale chiedono cortesemente la posizione. Niente, non gliela possono dare: l’unico GPS che i due avevano stava al polso di Tommy e si è rotto nel ruzzolamento. Ora io non sono un cecchino, quindi magari… Ok, lasciamo stare. Non è importante, non è quello il senso del film. Non possono andarli a prendere perché le tempeste di sabbia impediscono agli elicotteri di arrivare fin lì e i mezzi di terra “non erano previsti”. Che magari è pure verosimile ma in quella circostanza suona un po’ da comico involontario.
I due amici si trovano quindi a camminare in mezzo al deserto verso il paese più vicino, unica possibilità di trovare acqua prima di morire di sete. Il protagonista si conferma un uomo combattuto, sta vivendo un momento difficile della sua esistenza e ha i suoi demoni a cui badare. Soprattutto si intuisce che qualcosa relativo alla ragazza che lo aspetta a casa lo turba. Tommy invece parla. Continuamente. Non so quanto l’adattamento e il doppiaggio abbiano inciso ma i dialoghi sono piuttosto deboli fin qui, ingessati e poco naturali. Le frasi sono troppo impostate, le battute non fanno neanche sorridere e gli scambi sono davvero molto didattici, a favore di pubblico. E poi si arriva finalmente al campo minato.
Post-mine
Qui dirò pochissimo. Il film si muove continuamente tra due registri, uno reale e uno onirico. Entrambe funzionano molto bene, regalano immagini potenti e incredibilmente dinamiche considerato anche che l’attore è inchiodato nello stesso punto per tutto il tempo. Alla staticità di scenario e situazione, non corrisponde una stasi narrativa, anzi. È proprio qui che il film decolla e dà il meglio di sé.
Sul piano reale Mike si troverà alle prese con la sopravvivenza spicciola e a fare i conti con il caldo, la sete e la stanchezza; perfino con la notte, non certo priva di pericoli in agguato. Sul piano onirico, Mike affronta i capricci della sua stessa psiche che gli mette di fronte situazioni a volte terrificanti a volte incoraggianti. Si va avanti così fino al finale, su cui ovviamente taccio.
Ricalcolo…
Premetto che io sono appassionatissimo di tutta la deriva onirica della narrativa. Da Gaiman a Kaufman, dal compianto Kon a Burton, da Zelazny a Moore… indipendentemente da che si tratti di letteratura, fumetto o cinema. È vero che quando si mette in mezzo il piano onirico si lascia campo più libero all’immaginazione e si superano molte delle barriere che i principi di verosimiglianza ci pongono. Non tutti però. È vero anche che organizzare le visioni della psiche, frammenti di sogni, memorie, personificazioni di traumi, illusioni, scambi di significati e significanti e via dicendo è un lavoro chirurgico da fare con un estrema precisione in fase di scrittura.
Ecco, nonostante io abbia apprezzato ciascuna delle immagini messe in scena dai due registi, non mi sono parse legate tra di loro al meglio. Ho spesso dovuto ricalcolcare la strada, come un navigatore che perde e riprende il segnale. In certi casi, quando viene fatto con metodo è anche un processo stimolante, divertente. Qui però, alla fine, sembra che la psicologia del personaggio non coincida in realtà molto con il percorso che fa. Non voglio fare spoiler quindi mettiamola così: i registi sembrano volerci dire che il Mike sta affrontando una situazione esterna che rappresenta anche un suo conflitto interiore. Ottimo, questo è un grande classico per una quantità di ragioni ed è tecnicamente giustissimo. Però, se sul conflitto esterno non ci sono problemi, quello interno, una volta decifrate tutte le varie visioni, non risulta così forte. Sì… lui la tendenza alla scelta più prudente ce l’ha; a rimanere in difesa, diciamo, quando possibile. Ma non così tanto. E soprattutto quando poi si arriva al finale e diventa chiaro quali siano i due problemi fondamentali del protagonista, uno si risolve un modo piuttosto dubbio e l’altro (seppur coerente) risulta debole, al punto che la sua metaforizzazione attraverso la mina pare un tantino esagerata.
Semplicità e potenza
Va comunque ammesso che in Mine l’opera di regia e montaggio è ottima. Personalmente ho trovato la musica (lo dico piano, perché leggo che in realtà è molto piaciuta) un po’ eccessiva: in certi punti l’accompagnamento alle azioni è talmente sottolineato da sfiorare il mickey mousing. A parte questo però, sul piano visivo e alla fine anche su quello generale, tanti tanti complimenti. Alcune simmetrie tra la realtà vissuta dal personaggio e i suoi flashback sono quasi geniali, spesso basate sulla posizione del corpo, sui movimenti o sulle espressioni. E sono potenti, rimangono in testa.
Ecco, ogni volta che Mine affronta la sua strada in modo semplice (e non intendo banale) va alla grande. Quando invece entra nel dedalo di visioni ed emozioni forse punta a un registro troppo alto, alla Kaufman, e diventa farraginoso.
Conclusione — la grande metafora
Molte recensioni fanno notare quanto sia brillante la metafora del passo avanti: stai su una vecchia mina, se muovi il piede potrebbe esplodere ma anche no. Le probabilità sono contro di te. Che fai? Nella vita puoi sempre scegliere la via più prudente? E la via più prudente porta maggiori benefici dell’altra?
In effetti è brillante ma sinceramente non me la sento di gridare al miracolo. Il miracolo, che miracolo non dovrebbe assolutamente essere, è che questi ragazzi ce l’abbiano fatta a produrre e distribuire il progetto. Non perché non valga, vale moltissimo, ma perché è proprio difficile al giorno d’oggi concepire un percorso di merito che porti qualcuno da una passione infantile in Italia a una produzione americana.
Ora io sono stato ironico in certi punti ma, lo assicuro, senza alcuna malizia. Mine è un film che merita di essere visto, con degli spunti brillanti e una grande qualità tecnica. Ci sono degli errori di sceneggiatura, è vero, come la prima parte che poteva essere interamente tagliata e altri problemi di chiarezza e introspezione. Questo però non deve far smettere nessuno di meravigliarsi e soprattutto di tifare per Fabio & Fabio. Sono giovani, sono bravi, è normale che debbano prendere le misure e non potranno che migliorare, perché la passione per il proprio lavoro fa quell’effetto lì.
Quindi bravi, e in bocca al lupo. Siete su un campo minato ma in fondo bisogna sempre andare avanti, no?