Bellocchio, il Traditore e il problema del giudizio
Il Traditore è l’ultima opera di Marco Bellocchio, due ore che passano molto rapidamente in cui il regista ci porta in scena la storia di…
Il Traditore è l’ultima opera di Marco Bellocchio, due ore che passano molto rapidamente in cui il regista ci porta in scena la storia di Tommaso Buscetta, che fu il primo collaboratore di giustizia (non pentito) a parlare con il giudice Falcone di cosa fosse Cosa Nostra, di come fosse organizzata e di quali contatti avesse stabilito con gli ambienti del potere politico.
Non voglio mettermi a riassumere la trama del film, sarebbe lungo e tedioso. Dirò solo che, dopo un breve preambolo, la vita di Buscetta viene raccontata principalmente attraverso le sue apparizioni in tribunale che qui diventa un luogo strano: un territorio franco in cui lui può confrontarsi con i suoi ex compagni mafiosi in un ambiente protetto, dove nessuno può tirar fuori un’arma e tutti devono stare molto attenti a ciò che dicono. Quindi si comunica con i toni, con le occhiate, con mezze frasi e parole lasciate in sospeso. Ma si comunica. Molto.
Dopo una breve recensione qui vorrei fare alcune note a bordo pagina (è la ragione per cui questo progetto è nato) che secondo me meritano di essere considerate.
Recensione (breve)
Bellocchio è un maestro del nostro cinema. Anche quelli a cui i suoi film non piacciono ne riconoscono l’abilità, la capacità di portare tematiche difficili sullo schermo con estrema lucidità e spesso in modo potente e ruvido. Bellocchio, ricordiamolo, è un regista fortemente politico e apertamente vicino alle visioni dei Radicali (al punto di essersi candidato con loro nel 2006).
Il Traditore è un perfetto esempio della sua opera. Volutamente lento nel ritmo, non da alcuna spiegazione superflua allo spettatore e quando può usa immagini, silenzi e sguardi, più che le parole. Parole che ovviamente ci sono, visto che ci muoviamo tra interrogatori e tribunali; eppure non sono le frasi a restare impresse nella memoria. I momenti più importanti sono sempre delegati ad altro: un’inquadratura, una scena muta accompagnata da sola musica, un silenzio pieno di tensione.
La sceneggiatura è complessa, eppure riesce nella difficile impresa di miscelare udienze, azioni e flashback in un unico flusso estremamente dinamico e chiaro. La fotografia non è innovativa, anzi risulta molto classica ma è vivida e precisa, curatissima nei tagli. Regia e direzione degli attori non perdono un colpo. La telecamera è praticamente invisibile e nei rari punti in cui la presenza del regista si palesa allo spettatore lo fa portando un dono, un elemento inatteso ma perfettamente funzionale al racconto; come le cifre che all’inizio scorrono sullo schermo accompagnando i morti negli scontri tra famiglie.
Ci sono alcune scene che arrivano inattese, che non ci si immagina possano far parte di un racconto di questo tipo e che invece si incastrano nel quadro complessivo e contribuiscono a renderlo particolareggiato e profondo. Come la telefonata della moglie quando lui è già sotto la custodia della polizia, che senza parlare gli ricorda quanto sia banale il valore della libertà, e le ragioni per cui dovrebbe parlare con Falcone.
Altra nota di merito del film è il modo in cui, senza dire nulla apertamente, riesce a tratteggiare i mafiosi attraverso scene diversissime tra loro. Gli ‘’uomini d’onore’’ sono quelli che all’inizio partecipano al lascivo e barocco festino nella sontuosa villa scelta per l’incontro tra i boss. E sono anche quelli che inneggiano ai santi, cantando e baciando i crocifissi mentre guardano i fuochi d’artificio. E sono anche quelli che pieni di dignità, educazione e rispetto promettono, baciano e stringono mani solennemente. E sono anche quelli che urlano come scimmie dentro le celle del tribunale, fumando e mostrando i genitali ai giudici. E sono anche quelli che strangolano i figli degli amici. Poche volte tutto questo era stato messo insieme senza curarsi di dare una giustificazione a come le varie parti coesistano. Qui coesistono e basta, e l’ho trovato molto efficace.
Note a Bordopagina
Mentre guardavo il film in sala mi chiedevo perché proprio adesso. Che cosa potessi imparare io da quella storia, a parte la storia stessa. Mi sono dato una risposta che, almeno per me, ritengo valida.
Oggi più che mai, e per oggi intendo negli ultimi anni, c’è un’abitudine diffusa a emettere giudizi netti, spesso sulla base di poche informazioni conosciute. Lo abbiamo visto, ad esempio, nei vari casi di molestie sessuali da parte di personalità dello spettacolo o politiche.
Quando noi commettiamo un errore, chiediamo a chi deve eventualmente giudicarci (un genitore, un datore di lavoro, un amico) di farlo su quell’errore e su quello soltanto, e anzi lo invitiamo a ricordarsi di quanto di buono abbiamo fatto nel corso del tempo. Nel dibattito pubblico però sembra che nessuno abbia voglia di usare quella cortesia. Da un fatto si passa alla demonizzazione (o all’esaltazione) di tutta quella persona, e spesso con toni definitivi, senza concedere possibilità di appello o redenzione.
Bene. Questo film per me si incastra in questo processo mentale. Buscetta viene raccontato come un uomo estremamente contraddittorio e invia tantissimi segnali contrastanti tra loro. E’ un marito appassionato e affettuoso ma è anche un uomo che ha trattato le donne come oggetti una quantità indefinite di volte. E’ un mafioso che dichiara di non essere affatto pentito della sua affiliazione: è entrato nella mafia per far del bene, dice, per difendere i deboli dai soprusi. Nella sua testa difendere i deboli ed essere un criminale non sono concetti che entrano in conflitto. Buscetta ha un suo proprio senso dell’onore e quando decide di parlare lo fa perché ritiene che siano gli altri ad aver tradito quei lontani ideali che avrebbero dovuto guidarli. Eppure ha ucciso, ha contrabbandato, ha privato persone dei loro averi e della vita.
Quello che emerge è un uomo complesso. Assolutamente condannabile in certi momenti e assolutamente comprensibile in altri. La verità è che Buscetta (parlo sempre del personaggio del film, senza pretesa che questi discorsi si possano applicare alla persona) è il più delle volte spinto da emozioni e intenzioni che se fossero prese e trasportate in un altro ambiente avrebbero dato vita a un personaggio fortemente positivo. Rispetta i deboli, non perde mai la calma, ha cura della famiglia, è anche simpatico e dimostra di tenere moltissimo ai suoi amici.
Poi però c’è il corto circuito, c’è tutto il resto.
Ora io capisco che non è la prima volta che un film ci racconta un personaggio complicato, che amiamo e odiamo al tempo stesso. Ma qui tutto acquista una dimensione particolare perché Buscetta è un pezzo di storia italiana. Non siamo di fronte a una completa finzione. Questa persona è esistita e certi discorsi li ha fatti davvero (sono recuperabili anche su youtube). Inoltre questo film non parla di argomenti che testano i limiti della nostra moralità in modo palese, come farebbe una pellicola sulla pena di morte o sull’eutanasia. Qui restiamo nel campo delle sfumature ed è più difficile mettere insieme i pezzi , farci un’idea complessiva del personaggio e capire se e per cosa condannarlo o assolverlo.
Ed è questo il punto. Proprio oggi che l’abitudine di emettere giudizi tagliati con l’accetta è largamente sdoganata, una storia che, semplicemente delineando un personaggio, ci ricorda quanto le persone siano complesse, mondi interi spesso in conflitto con se stessi, è una storia preziosa.
Giudicare è una questione delicata e richiede di stare attenti ai confini entro cui esiste ciò che va giudicato, confini che il più delle volte comprendono solo una frazione dell’intero individuo di fronte a noi. Anche perché ogni individuo, come pare ci dica Bellocchio, ne cela molti, e di questa pluralità è bene tener di conto visto che, immagino, è quello che ognuno vorrebbe dagli altri se il giudizio dovesse subirlo.
Non ho la pretesa di affermare che questa fosse l’intenzione di Marco Bellocchio, anzi. Ma un film è anche negli occhi dello spettatore ed è compito nostro mettere a frutto l’arte per migliorare più possibile la comprensione di quel che abbiamo intorno.
In conclusione, se non fosse chiaro, io il film lo consiglio. Anche perché a difendere Andreotti in aula c’è il Conte Uguccione.
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