Amanda Knox e l’opinione pubblica — recensione
Amanda Knox, che suppongo non abbia bisogno di presentazioni, è anche il titolo del nuovo documentario prodotto da Netflix, per la regia di Rod Blackhurst e Brian McGinn, due registi non particolarmente noti nel mondo del grande cinema. Il documentario si snoda attraverso le interviste ai protagonisti della storia stessa, cioè Amanda Knox, Raffaele Sollecito, il P.M. Giuliano Mignini e il giornalista Nick Pisa.
Del caso ne hanno già parlato all’infinito sia gli esperti (sui giornali e in tribunale) sia chi non ne sa assolutamente niente (su internet, come sempre). Io faccio parte di coloro che non ne sanno niente, tranne ciò che posso aver letto o visto al telegiornale.
Vorrei premettere che l’ho trovato interessante anche se, per certi versi, un po’ paraculo. Prima di tutto ripeto il solito mantra: il cinema se ne frega della scienza, della storia e fondamentalmente di tutto il resto. Non lo fa per cattiveria. Lo fa perché tutto quanto, in narrativa, diventa strumento per veicolare temi, emozioni e storie. Tutto diventa altro e durante questo processo di trattamento è normale che i fatti vengano rielaborati, piegati e riordinati. I bravi autori riescono a fare tutto ciò senza mancare di rispetto alle proprie fonti, il che si traduce in due punti: riescono a selezionare e adattare i fatti senza violentarli, e riescono a mantenere la coerenza interna.
Amanda Knox ci riesce, non dico di no. La ragione della paraculaggine (ma è “una mia opinione e basta”) risiede nella scelta di usare gli aspetti torbidi del giallo come elemento di attrattive mentre, di fatto, si racconta tutt’altro. Un gioco con lo spettatore senza dubbio efficace ma forse un po’ sleale.
Le basi
Non sto nemmeno a chiamarla trama. Comunque, ad ogni buon conto facciamo rapidamente il punto.
Nel 2007, a Perugia, muore Meredith Kercher, una ragazza inglese in Erasmus. Viene rinvenuta nella propria casa con la gola tagliata, in mezzo a un casino ritenuto dagli inquirenti troppo studiato, probabilmente originato da un tentativo di simulare una rapina. I sospetti si concentrano su chi aveva accesso alla casa, vale a dire la coinquilina Amanda Knox e il suo recentissimo nuovo fidanzato Raffaele Sollecito.
Il P.M. incaricato delle indagini è Mignini, il quale ritiene il comportamento di Amanda e Raffaele anomalo. I due sono, agli occhi del pubblico ministero, troppo tranquilli, attoniti ma non abbastanza disperati o spaventati. Iniziano le indagini della scientifica e gli interrogatori. Il caso diventa molto interessante agli occhi della stampa per due ragioni: è internazionale (Amanda è americana, la vittima inglese e Raffaele italiano), ed contiene un alta dose di sessualità. Pare brutto a dirlo ma è vero: sia la vittima che Amanda sono belle ragazze e quest’ultima in particolare appare subito come una fanciulla disinibita e sensuale, quasi aggressiva. Ovviamente questo non ha alcun peso sul giudizio generale delle persone o del caso, ma trasforma tutto in un prodotto altamente vendibile per la stampa italiana ed estera, che monta il caso come non mai.
Amanda e Raffaele vengono interrogati (pare) molto duramente, a lei dicono (ma non è vero) che le analisi risultano positive all’HIV solo per farsi dare una lista di persone con cui è stata a letto. Le versioni dei due sospettati cambiano con il passare del tempo, gli alibi crollano e i dati scientifici sembrano dar ragione agli inquirenti. I due vengono inizialmente trovati colpevoli, poi invece no, poi saltano fuori altre persone che forse erano in quella casa, poi di nuovo colpevoli, poi i dati vengono fatti esaminare da periti di nuovi laboratori che dicono, in pratica, che la scientifica locale ha fatto troppo casino. Nessuno di quei dati può essere considerato risolutivo. Amanda e Raffaele vengono definitivamente assolti, ma il mistero rimane.
Di cosa non si parla
Non si parla del caso. Cioè sì, ma appunto… è una cronaca. Il giallo in sé, la storia di Meredith e delle indagini è una base su cui poggiare la struttura del documentario. Amanda Knox offre molti spunti per un autore: è un famoso caso di cronaca che potrebbe essere più che degnamente affrontato secondo tutte e tre le declinazioni di base del genere. Potresti raccontarlo dal punto di vista della vittima (thriller), cerando di raccontare cosa è avvenuto prima e fino al momento dell’omicidio. Puoi raccontarlo dal punto di vista degli inquirenti, creando un giallo puro, o puoi narrarlo dall’ottica del colpevole (o presunto tale) e costruirci un noir.
Qui però non si fa niente di tutto questo. Si racconta il caso con uno stile non troppo distante da quello sensazionalistico con cui lo sdoganò lo stesso Nick Pisa, stile qui automaticamente “assolto” dal tempo che intanto è trascorso e che permette di guardare tutto con una mentalità diversa, meno coinvolta. Che Amanda Knox non abbia come obiettivo fare inchiesta risulta chiaro quando si guarda quali siano i personaggi meno esplorati: Meredith (la vittima) e Rudy Guede, condannato in via definitiva come assassino.
Gli ingredienti ci sono tutti: ricostruzioni grafiche, racconti dalla viva voce dei protagonisti, dati, statistiche, numeri, registrazioni e video originali inediti. Eppure non si parla del caso.
Di cosa si parla
Della fascinazione del caso. Di come tutto possa diventare grottesco e incomprensibile quando convergono, senza ordine o rispetto reciproco, tre dei più potenti elementi al mondo.
Il primo è la legge. Nello specifico le forze dell’ordine, da cui ci si aspetta sempre un comportamento perfetto, neutrale e obiettivo nonostante siano composte di uomini e donne. Il secondo è la stampa e opinione pubblica. Il famigerato quarto potere è l’interfaccia tra il lavoro di pochi e l’opinione di tutti, quindi in base a come viene usato può scatenare le ire di questi tutti contro poche persone che neanche conoscono davvero. Il terzo elemento è l’umano agire. Ok, suona banale, ma qui assume un significato molto poco generico. In condizioni estreme nessuno di noi sa come un altro, fosse anche qualcuno che conosciamo benissimo, potrebbe reagire. Ci stupiamo continuamente di come gente che conosciamo da una vita affronti lutti, successi o separazioni; eppure siamo anche i primi a riconoscere, se interrogati con calma, che quel che conosciamo degli altri è una parte infinitesimale di loro, e che il grosso non solo non lo conosciamo noi, ma neanche loro stessi.
Ecco, Amanda Knox parla di questo e lo fa rendendo esemplari i personaggi di una storia vera proprio per dare credibilità al ragionamento e renderlo più spiazzante possibile. Se mescoliamo la pressione che la stampa può portare con la componente umana e fallibile delle forze dell’ordine e con quella imprevedibile delle reazioni umane, cosa accade?
Amanda Knox è un racconto su come le “piccole cose” umane possano incasinare tutto, compreso il rigore di un’indagine e di un procedimento giudiziario.
Paese che vai, Amanda Knox che trovi
Amanda Knox è pensato per un pubblico internazionale. Un americano ci trova il racconto di una vicenda accaduta in un luogo lontano, che lui ha sempre associato quasi solo al cibo, alla mafia e, quando va bene, alla storia antica e all’arte. In un paio di punti si vedono le reazioni della stampa americana al caso Knox ed è chiarissima tutta la sfiducia nei confronti delle capacità italiane di condurre un’indagine decorosa.
Letto da qui, Amanda Knox sembra tagliato con l’accetta: Mignini ci fa la figura del wannabe Sherlock Holmes, con tanto di pipa e cipiglio fiero, per poi risultare quello che entrava sulla scena del crimine senza cambiarsi le scarpe e che attribuiva alle sue sensazioni lo stesso peso dei dati scientifici. Può dare fastidio, al pubblico italiano. Nick Pisa invece è il giovane giornalista inglese pieno di pretese e speranze che arriva in Italia e monta il caso. È lui che divulga il diario personale di Amanda mentre lei è in carcere, è lui che afferma di aver riportato dati sapendoli falsi, ma sapendo che se non li riportava lui qualcun altro lo avrebbe fatto soffiandogli un potenziale scoop. Fa la figura dello sciacallo senza scrupoli ma questo, a noi, da qui, importa di meno. Eppure sicuramente Pisa va incontro alla stessa generalizzazione riservata a Mignini.
Sollecito è la componente umana, per come lo usa il documentario, di tutta la vicenda. Il personaggio ingenuo e spaventato che diventa confuso, combattuto tra la paura delle indagini e l’amore per lei, che non smette mai di cercare. Amanda, dal canto suo, ondeggia incredibilmente nelle percezioni dello spettatore: si ha sospetti su di lei all’inizio, perché è fredda quando non dovrebbe esserlo, si ha pena per lei quando viene ingannata dalla polizia, si ha paura di lei quando sembra seguire Sollecito agli interrogatori per manipolarlo, e infine torna bambina indifesa di fronte alla madre. Una possibile strega vista da qui, una ragazzina lontana da casa vista da là.
Per finire (finalmente)
Interessante, secondo me. Tecnicamente ben fatto, non è nulla di straordinario ma è interessante. Non come ricostruzione degli eventi: se vi approcciate a questo film credendo che sia un documentario di inchiesta resterete probabilmente delusi. Però si tratta di un ottimo documentario sociologico su come le persone restino sempre persone e proiettino ambizioni, convinzioni e pregiudizio in tutto ciò che fanno, magari rovinandolo.
La parte più intrigante? Che questo esperimento si riflette in parte sullo spettatore stesso. Se lo guardate, fateci caso: la componente di attrazione del giallo è talmente forte che chiunque potrebbe ritrovarsi tra quella gente che il documentario velatamente critica, quelli che senza sapere niente iniziano a dire “secondo me” e a giudicare Pisa, Mignini o gli stessi Raffaele e Amanda.